Chuck D, Rick James & gli altri: musica digitale & cause milionarie



La distribuzione di mp3 è un’operazione di vendita o di licensing, dal punto di vista degli artisti? In un paio di importanti azioni legali, si gioca il futuro del sistema organizzativo imprenditoriale della musica

Ne avevamo avuto il sentore alcuni mesi fa: potrebbe essere il colpo di grazia alle tradizionali major del disco e di conseguenza a tutto il sistema tradizionale di diffusione della musica registrata.

Non stiamo parlando di nuovi sistemi peer-to-peer o di pirateria a vario titolo, ma di quella che potrebbe essere la più grande revisione di massa dei rapporti contrattuali tra grandi etichette discografiche ed artisti. Che porta con sé conseguenze importanti dal punto di vista dei diritti degli interpreti ed anche un peso economico rilevante per le multinazionali “padrone” della musica, che improvvisamente vedono il proprio futuro deciso da una sorta di roulette giuridica, che di fatto rimetterebbe in discussione il concetto stesso di business musicale.

A inizio novembre, nel giro di 48 ore sono state diffuse notizie relative alla class action guidata dagli eredi della funkstar Rick James, con l’appoggio di Rob Zombie, e dell’azione individuale di Chuck D dei Public Enemy contro Universal Music Group.

Nel primo caso c’é il tentativo di impostare un’azione legale di gruppo contro le major; nel secondo, un singolo artista – anche a titolo di membro di un gruppo molto noto – cita in giudizio una grande casa discografica. La richiesta? Essenzialmente la stessa: percentuali più importanti – anche retroattivamente – sulle vendite di musica online.

Già, perché le major del disco, dopo aver abbracciato con grande ritardo e tuttora con diffidenza il modello della distribuzione digitale, hanno trattato le vendite alla stregua di quanto si era soliti fare coi vecchi prodotti fisici. In molti casi i contratti esistenti neppure avrebbero concesso forme di distribuzione secondo le nuove tecnologie, che avrebbero dovuto essere rinegoziate a parte. E’ stato il caso dei Pink Floyd, i cui brani venivano venduti come singoli digitali dalla EMI, senza il consenso del gruppo; la vicenda, che includeva anche una storia di royalty non pagate, si è aperta nel 2010 e chiusa a gennaio 2011 con una rinegoziazione contrattuale tra gli artisti e la major.

In altri casi la distribuzione di per sé era magari consentita dagli accordi in vigore, ma le percentuali applicate sono state quelle riferite alle vendite dei dischi, non quelle – ben più favorevoli agli artisti – per altri tipi di utilizzi su licenza (inserimento in film e videogame, per esempio). Bonus: spesso sono state applicate deduzioni per voci come “contenitore” e “packaging“. Che nel prodotto digitale non esistono.

Vendita o licensing? Questo il dilemma. Un primo pronunciamento in merito si era verificato alcuni mesi addietro, nel caso FBT/Universal, che interessava i vecchi lavori di Eminem. La sconfitta di Universal in questa situazione aveva rapidamente smosso le acque.

Qualche settimana addietro, Pete Townshend tuonava contro iTunes, dandogli del succhiasangue e bollandolo come responsabile della mancanza di nuovi talenti, come se iTunes fosse la label discografica che non investe, e non un negozio. Il più importante sulla piazza al momento, ma pur sempre un negozio.

L’artista ci ha fatto la figura del disinformato, che avrebbe bisogno di aggiornarsi un po’ e considerare che se non ha mai chiesto soldi ai negozi di dischi piccoli e grandi per autofinanziarsi, allo stesso modo non dovrebbe aspettarsi un investimento da Apple, ma dalla propria casa discografica, nella sua qualità di proprietaria e/o di detentrice-licenziataria di tutti (o della maggior parte) i diritti di sfruttamento economico delle opere ideate e realizzate dal grande chitarrista rock.

Alla luce dei casi di Chuck D e soci, verrebbe da consigliare al buon Townshend di controllare il proprio contratto e di chiedersi dove siano finiti i soldi delle vendite digitali degli Who.

Nel frattempo, i giudici esaminano i casi di Rick James e Chuck D: in il mercato musicale attende con trepidazione un verdetto. In teoria, dato anche il precedente FBT/UMG, il rischio per i grandi gruppi discografici è concreto. In caso di una sconfitta, anche Universal e Sony avrebbero qualche problemino a pagare un conto così salato, figurarsi Warner che è una struttura pù piccola. Potrebbe anche prefigurarsi una serie di accordi individuali con artisti, volti ad evitare una lunga serie di cause e un tracollo finanziario. Comunque vada, stiamo per assistere a una fase del tutto nuova e al definitivo traghettamento del mercato musicale fuori dagli schemi tradizionali.

Sull’argomento, l’avvocato Vincenzo De Sanctis, esperto in questioni relative al Diritto d’Autore, ci dice:

Questo, in definitiva, è accaduto perché nessuno si è reso conto che anche la vendita dei file musicali attraverso negozi come iTunes o eMusic rientra a tutti gli effetti all’interno del diritto di distribuzione concesso dagli artisti alle case discografiche al momento della sottoscrizione del contratto. In altre parole, nel momento in cui le label si occupano di “distribuire” (ossia di porre in commercio) le “opere dell’ingegno” dei propri artisti (cioè le canzoni), diventa del tutto irrilevante quale sia il supporto in cui le stesse opere sono sostanziate. Quando un fan decide di comprare una canzone del proprio idolo musicale, poco importa se di tratta di un disco di vinile, un CD o un file mp3: si tratta comunque della vendita di un esemplare di opera musicale. A questo punto, non si capisce bene perché i contratti d’oltreoceano (e spesso non solo quelli…), parlano di “licensing” indicando la messa a disposizione del pubblico delle canzoni attraverso i Web stores, quando si tratta a tutti gli effetti di vendita ampiamente rientrante nell’attività di distribuzione. Errori di questo genere, se trascinati avanti negli anni, generano inevitabilmente controversie giudiziarie come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni ed il cui epilogo rischia di mettere in crisi il concetto stesso di distribuzione musicale (e quindi il corretto sistema di “approvvigionamento” legale di musica da parte del pubblico), oltre che il possibile (probabile?) completo disfacimento economico ed organizzativo di tutto il sistema imprenditoriale del disco dai tempi di Edison ad oggi. Nel frattempo, in attesa di sapere come andrà a finire, i fans continuano ad “approvvigionarsi” di musica, scaricandola dalla Rete, spesso in maniera illegale….

[Pubblicato su Mytech]