P2P: class action degli utenti contro le major?



Le azioni legali delle major del disco e del cinema contro singoli utenti dei servizi P2P stanno per trasformarsi in un clamoroso boomerang? Negli Stati Uniti c’è chi pensa di sì; ma tutto dipende da un caso che potrebbe chiudersi tra pochi giorni

Gli anni delle letterine “velenose” da parte di titolari di copyright e loro rappresentanti agli utenti dei servizi peer-to-peer e delle mega-cause come il caso Capitol v.Thomas (che proprio negli ultimi giorni ha avuto alcuni sviluppi clamorosi) stanno definitivamente per concludersi?

Negli Stati Uniti c’era già un tentativo per arrivare a questo risultato, e per di più ad opera dello stesso team legale che difende Jammie Thomas-Rassett nel caso contro le major del disco, Kiwi Camara e Joe Sibley, con uffici a Houston, Texas.

In pratica, molto spesso, le accuse contro i singoli utenti sono state basate su sistemi che hanno “spiato” i suddetti, violando la privacy, tenendo traccia della navigazione e altro ancora. Prove acquisite in maniera quantomeno dubbia, se non del tutto illecita.

Questo tipo di situazione si è verificata anche in altri paesi: proprio di questi tempi in Italia è alla ribalta il caso Fapav-Telecom, in cui si parla di “spie” in casi di presunta pirateria legati al peer-to-peer.

Camara e Sibley – un duo d’assalto formatosi sui banchi della facoltà di Giurisprudenza di Harvard – sin dallo scorso anno avevano pensato di lanciarsi in un’iniziativa a difesa degli utenti della Rete: combattere la RIAA in tribunale e costringerla a restituire le somme – oltre cento milioni di dollari – a loro dire “estorte” a chi veniva considerato reo di filesharing pirata. Nel caso Thomas, per esempio, era stato fatto uso di indagini svolte da MediaSentry. La società è priva delle regolari licenze per condurre investigazioni private.

Togliere di mezzo la testimonianza di MediaSentry significa demolire interamente il processo contro Jammie Thomas, ma anche buttare giù le cosiddette prove contro migliaia di altri utenti, persone che spesso hanno accettato di pagare qualche migliaio di dollari dopo aver ricevuto una richiesta abbastanza minacciosa, pur di evitare onerosi – e rischiosi – processi.

Non solo: provare una violazione di copyright, significa innanzitutto provare di essere i titolari di quel copyright. Le major spesso non l’hanno fatto, presentando documenti incompleti o insufficienti. Registrazioni valide ma non “certificate” come richiesto dalla legge federale.

Il duo di legali, aveva per di più l’appoggio dell’agguerrito professor Charlie Nesson, che non a caso insegna ad Harvard e si fregia del ragguardevole nomignolo “Billion Dollar Charlie”. Ma finora la fantomatica class action ventilata dai tre non si è concretizzata, forse perché Camara e soci intendevano agire subito dopo la chiusura del caso Thomas; che, come si è visto pochi giorni fa, è ancora più che aperto.

Invece, una vicenda analoga si sta verificando a Portland, Oregon. Ne dà notizia sul proprio blog Ben Sheffner, legale esperto di copyright che lavora per grandi nomi come NBC Universal. Si tratta del caso Andersen v. Atlantic Recording Corp.: in una vicenda-fotocopia di quella di Jammie Thomas, una certa Tanya Anderson era stata identificata grazie a MediaSentry come l’utente che aveva condiviso un certo numero di file musicali su Kazaa. Era stata pertanto perseguita dalle etichette discografiche dopo essersi rifiutata di giungere a un accordo.

Ma il caso aveva preso una piega ben diversa: le etichette non avevano potuto provare il collegamento tra la Anderson e il presunto filesharing, e la vicenda si era conclusa con l’abbandono della causa e oltre 100.000 dollari di spese legali a carico delle major. La Anderson avrebbe potuto dirsi contenta e chiuderla qui.

Invece, già nel 2008, aveva deciso di reagire, citando a sua volta in giudizio le major del disco e MediaSentry per quello che era a suo dire un abuso commesso verso di lei ed altri utenti innocenti. Il legale di Anderson aveva inoltre cercato di impostare una in tal senso, per agire a nome di tutti coloro che si fossero trovati nella stessa situazione. In realtà, già lo scorso novembre il giudice Anna Brown aveva respinto gran parte delle richieste della Anderson; lo scorso 5 gennaio, lo stesso giudice ha negato la “class certification“, imponendo così uno stop al tentativo di class action.

A fine gennaio le etichette hanno depositato ulteriori dichiarazioni, mentre la Anderson ha tempo fino al 5 febbraio per ribattere. Ma va detto che se le label insistono nell’aver agito entro i termini di legge, se anche dovessero perdere non è ben chiaro cosa possa a questo punto ottenere la Anderson, dato che – come ricorda Sheffner – le cospicue spese legali furono già addebitate ai discografici.

In conclusione: il caso Anderson è agli sgoccioli e il suo esito è tutt’altro che scontato; Camara, Sibley e Nesson potrebbero parallelamente intavolare un altro tentativo di class action, ma il prosieguo della stessa sarebbe sicuramente influenzato dal predecente della vicenda Anderson.

Le major del disco (e indirettamente anche quelle del cinema) resteranno al sicuro, o vedranno presto le varie azioni legali contro gli utenti di peer-to-peer trasformarsi in una sorta di “boomerang” letale?

In Oregon si attende, col fiato sospeso.

Pubblicato su: http://mytech.it/web/2010/02/02/p2p-class-action-degli-utenti-contro-le-major/