Spotify, il modello è sostenibile: garantisce Universal



Spotify sarà davvero uno degli strumenti più diffusi per ascoltare musica e una delle principali fonti di guadagno per i discografici, nel prossimo futuro? La principale major del disco pensa di sì.

Spotify è solo fumo o c’è davvero della sostanza dietro? Viene da chiederselo, datosi tutto il gran strombazzare che si fa attorno a questo programmino che sembrerebbe davvero dare accesso al fantomatico e ambitissimo “jukebox celestiale” rimasto finora una fantasia.

Eppure, alle notizie di qualche mese fa che volevano Spotify persino più importante di Apple iTunes nella natia Svezia, ora si aggiunge una affermazione importante: quella di un portavoce della più grande major del disco al mondo.

Testate come Telegraph, BBC e Billboard hanno riportato il pensiero di Rob Wells, uno dei pezzi grossi della distribuzione digitale di Universal Music International: “Spotify ha un modello di business altamente sostenibile”.

Curiosità: proprio il Telegraph, solo lo scorso agosto, citando autorevoli fonti del mondo della discografia, affermava che intorno a febbraio 2010 Spotify sarebbe diventato una fonte di introiti importante per le etichette. E così è stato.

Nell’esprimere la propria visione, Wells ha in pratica rivelato il funzionamento del sistema di royalties: Spotify paga i discografici in base al numero di utenti in Spagna e Gran Bretagna, mentre condivide con loro introiti di pubblicità e abbonamenti negli altri paesi in cui è presente (Francia e i tre paesi della penisola scandinava: Finlandia, Svezia, Norvegia).

In quest’ultimo caso, basta avere un 10-12% degli utenti che dal servizio di streaming gratuito divengano abbonati paganti per arrivare a un modello che sia sostenibile per i discografici.E nei quattro paesi di cui sopra, Spotify ha raggiunto quella soglia. Risultato? Per Universal è stata la quarta fonte di guadagni nel settore della musica online nel corso del 2009. Un risultato notevole, che prova che in casa Spotify la sostanza c’è davvero. Case discografiche major e persino indipendenti hanno accordi particolari e persino quote della società. Insomma, sembra davvero il posto dove “esserci”, per il mercato.

E dal punto di vista degli utenti (chi scrive ha avuto modo di testare il servizio) è una pacchia: il repertorio conta milioni di pezzi; è aggiornato di continuo con ultime novità e riscoperte di catalogo. Si trovano artisti notissimi e materiale esotico solo per veri intenditori. Insomma ce n’é davvero per tutti e non mancano le anteprime e i live esclusivi.

Per il momento, per “limitare i danni” sul mercato britannico, Spotify è tornato tempo fa a un sistema di inviti, così da ridurre il numero di “freeloaders“, di utenti interessati solo al servizio gratis, che è molto alto in Regno Unito e Spagna e che quindi non consente ancora in questi territori una adeguata “sostenibilità” del servizio.

Chissà quale sarà la scelta operata per lo sbarco negli Stati Uniti: mentre scriviamo, non è ancora dato saperlo.

In chiusura, va registrato anche un fatto curioso e poco piacevole verificatosi in Gran Bretagna: la messa al bando del servizio nella prestigiosa Università di Oxford (!). Già, perché pur essendo pienamente legale, Spotify sembra essere trattato alla stregua dei vari peer-to-peer e pertanto additato come fonte di spreco della banda. E quindi da vietare agli studenti; il bando – contro il quale si sono levate diverse voci critiche – è però riuscito solo in parte. Il blocco funziona “a macchia di leopardo” e quindi alcuni studenti continuano ad accedere senza problemi a Spotify

Pubblicato su Mytech

One Response to “Spotify, il modello è sostenibile: garantisce Universal”

  1. […] al 2010, quando i conti di Spotify erano decisamente meno entusiasmanti, eppure una major come Universal già reputava valido lo schema adottato dal […]