Archivio dei testi con tag 'italiano'



Turntable.fm: musica, social network e un’incredibile operazione di riciclaggio

ovvero: Come passare da un sito e app che permette di “giocare” e organizzare promozioni usando i codici a barre dei prodotti, a un incrocio tra una chat “social” e un concorrente di Spotify…

Continua…

Musica online, un “leak” di troppo: il caso Ninja Tune

Musica pubblicata in rete prima dell’uscita ufficiale: un classico; spesso, con la complicità di persone interne a label e studi di registrazione. Talvolta a fini di autopromozione; in altri casi, con conseguenze imprevedibili…

Leaking: pubblicare brani musicali in Rete, illegalmente, prima dell’uscita ufficiale. Una pratica difficile da fermare. Forse anche inutile da perseguire: dopotutto “any publicity is a good publicity”. Succede a tutti i grandi nomi, da anni, ormai sembra parte della campagna promozionale (e talvolta è proprio così).

Fa così un po’ scalpore il caso dell’etichetta Ninja Tune, che se la prende con il giornalista responsabile di un leak, peraltro neppure su artisti troppo noti. Ma andiamo con ordine.

Anche quando non c’è il placet degli aventi diritto, normalmente i brani oggetto di tali “anteprime non autorizzate” partono da qualcuno molto vicino all’artista originale e che ha accesso diretto, magari temporaneamente, ai master: persone interne alla label discografica; dipendenti di studi di registrazione. E via dicendo.

Così si può sentire di leak capitati con brani di Madonna, Vasco Rossi, Beyoncé, Guns n’ Roses e via dicendo. E’ successo a Lady Gaga col suo ultimo album, continuerà a succedere a nomi noti e meno noti.

Di solito c’è qualche lamentela da parte dell’artista o dell’etichetta. Poi il disco esce (e la gente già ne parla anche per via delle anteprime scaricate “illegalmente”…) e tutto rientra nella normalità. Più raramente ci sono guai seri: come accadde nella vicenda dei Guns n’ Roses del 2008, che portò all’intervento dell’FBI ed all’arresto del blogger Kevin Cogill, che si dichiarò poi colpevole e subì un processo durato circa un anno.

Il disco dei Guns peraltro non ebbe gran successo e non per colpa del “pirata” digitale. Curiosamente, i Guns sono anche il primo gruppo entrato – grazie a un leak – in una classifica radiofonica, senza che il disco fosse stato pubblicato.

E ritorniamo a luglio 2011 e al caso della Ninja Tune: come riferito da Digital Music News, l’etichetta di culto fondata dal duo di dj inglesi Coldcut, su un proprio blog svela che il leak a danno di due nuove uscite è opera di tale Benjamin Jager, in forza alla pubblicazione tedesca Backspin. Che ora verrà “punita” e tagliata fuori dalla distribuzione di promo.

Il tutto grazie a tecniche di watermarking sul materiale audio, che ha permesso di risalire alla copia distribuita illegalmente.

Ma il leak dunque non è promozione per Coldcut & company? E non è strano che questa azione arrivi proprio da loro, almeno in apparenza paladini delle violazioni di copyright a fini artistici (i Coldcut hanno una lunga esperienza nel sampling audio e video di lavori altrui e nel “riciclaggio” sonoro, dopotutto)?

Dichiara la label: “E’ molto difficile per artisti giovani ed emergenti riuscire a vivere della propria musica; la gente che carica in rete la loro musica mesi prima che sia commercialmente disponibile non sta facendo loro un favore“.

Il ragionamento non fa una piega: e dopotutto i Coldcut tanti anni fa non facevano mistero di rilasciare permessi anche gratis a produttori casalinghi che volessero riutilizzare qualche loro frammento; ma allo stesso tempo si fecero pagare profumatamente quando un loro “breakbeat” fu richiesto come base per un pezzo di George Michael.

Come dire: si possono avere idee anche molto aperte in tema di copyright; ma ciò non esclude il tutelarsi da utilizzi commerciali spregiudicati o da distribuzioni pirata. Un frammento campionato e rielaborato a fini non commerciali è ben diverso dalla distribuzione non autorizzata – e per di più in “anteprima” – di un lavoro completo…

[Pubblicato da Mytech]

Peer-to-peer: Jammie Thomas/RIAA, l’epopea continua

Sorpresa: ancora un round nell’epica (interminabile?) battaglia tra il colosso della musica RIAA e Jammie Thomas-Rasset. Situazione – ancora una volta – capovolta. Verremo mai a capo del più clamoroso caso su copyright e peer-to-peer?

Viene da chiedersi se l’epopea avrà mai una fine, quante altre battaglie potranno essere combattute e quante altre volte il risultato potrà essere rivoltato come un guanto.

Stiamo parlando della complessa ed annosa vicenda giudiziaria che vede da una parte i discografici americani rappresentati dalla solita RIAA, e dall’altra Jammie Thomas-Rasset, utente della Rete, rea di aver scambiato un mucchietto di file musicali in Kazaa, ormai sei anni addietro.

Qualche giorno fa, il 22 luglio, il terzo processo si è concluso con la riduzione della multa a carico della Thomas-Rassett a 54.000 dollari di danni, somma peraltro già apparsa in un precedente grado del processo, ma poi riportata all’astronomica cifra di 1 milione e mezzo di dollari.

Breve riepilogo: nell’agosto di 6 anni fa, Jammie si era vista recapitare una classica letterina di “cease and desist” dalla RIAA. Alla diffida era accompagnata una richiesta di pagamento: la Thomas aveva apparentemente condiviso 24 file mp3 in Kazaa nel febbraio del 2005, commettendo così una violazione di copyright. La donna rifiutò di pagare e l’anno dopo si vide citare in giudizio da parte delle major del disco.

Con un “tira e molla” a dir poco storico, la Corte Distrettuale condannò la Thomas prima a pagare 222.000 dollari di danni, nel 2007; due anni dopo la somma raggiunse la bellezza di 1.920.000 $, per poi essere ridotta dal giudice Michael J. Davis a soli 54.000 dollari. I discografici proposero addirittura un accordo che avrebbe consentito alla Thomas-Rasset di uscire dal caso pagando solo 25.000 bigliettoni. La caparbia donna e i suoi tenaci difensori risposero che avrebbero pagato al massimo i danni reali: 24 dollari. Un terzo processo civile si è chiuso a novembre 2010 nuovamente con una cifra importante, come dicevamo: 1.500.000 dollari.

Nuovamente, il giudice distrettuale Davis ha ora riportato la somma a 54.000 dollari. Davis è convinto che la donna sia colpevole e che abbia anche mentito in alcuni punti, per esempio cercando di attribuire le sue azioni ai figli o all’ex fidanzato; ciononostante, il giudice, che ben conosce il caso, ha di nuovo ritenuto di dover ridurre la sanzione che gli era apparsa eccessiva.

A questo punto però entrambe le parti restano in silenzio e valutano cosa fare: su CNET, Greg Sandoval riferisce che la RIAA è in disaccordo con la sentenza e sta valutando le prossime mosse da intraprendere. Nessun commento dai legali di Jammie, ma è tutt’altro che impossibile un ricorso alla Corte Suprema.

Jammie Thomas aveva 28 anni e veniva descritta come “ragazza madre” all’inizio del caso. Ne ha 34 adesso ed è sposata dal 2009. Kazaa esiste ancora ma è sconosciuto ai più ed è peraltro un servizio legale, in abbonamento, di proprietà di una società chiamata Atrinsic, Inc. La sua versione “corsara” – che circolò dal 2001 più o meno fino al 2006 – sembra un lontano ricordo. Probabilmente i più giovani adepti del filesharing non lo hanno mai neppure incrociato; tutta la vicenda comincia a sembrare surreale, quasi situata in un’altra epoca, per i tempi di Internet e della tecnologia.

Da più parti si fa notare come il caso – che avrebbe dovuto essere una pietra miliare, l’esempio col quale porre definitivamente un freno alla pratica della condivisione non autorizzata di file – finora sia stato solo un immenso spreco di tempo e denaro, oltre a non aver fatto bene all’immagine dei discografici stessi.

Speriamo che il 2011 segni la sua conclusione e che Jammie Thomas-Rasset possa conoscere il suo fato, perlomeno prima di avere anche dei nipoti…

(Si ringrazia Nicola D’Agostino per la collaborazione)

[Pubblicato da Mytech]

Amy Winehouse: successo postumo anche in iTunes

Sezione speciale in Apple iTunes per la cantante prematuramente scomparsa: e i suoi album – come previsto – balzano ancora al top delle classifiche; intanto, in YouTube…

Il copione si ripete: come per Michael Jackson e per molti altri prima di lui, la morte di una star della musica equivale spesso a un ritorno del catalogo in classifica. Così, ecco che ad Amy Winehouse, assurta al successo troppo presto e scomparsa prematuramente, tocca ora questo onore di cui avrebbe probabilmente volentieri a meno…

Ovviamente, iTunes la fa da padrone: Apple ha allestito una sezione speciale per l’amatissima cantante britannica. E peraltro dispone anche della performance live all‘iTunes Festival del 2007, a Londra.

Con 16 videoclip e 34 (!) uscite disponibili (in realtà si tratta per la maggior parte di differenti edizioni degli stessi lavori, singoli, remix e via dicendo), non stupisce che nella notte tra il 24 e il 25 luglio, le classifiche digitali di mezzo mondo presentino album della Winehouse in testa e altre uscite sparse nelle posizioni successive della Top 10.

E’ “Back to Black” a dominare le charts, sia nell’edizione “base” che nella versione Deluxe.

Anche in YouTube molta attenzione per i video di Amy; piccola gaffe della major Universal che in Facebook segnala un link al portale Vevo invisibile fuori dagli Stati Uniti, ma gli stessi identici contenuti sono invece perfettamente visibili all’indirizzo www.youtube.com/user/AmyWinehouseVEVO.

Lo scorso giugno erano state rimosse da YouTube le immagini dell’ultimo concerto in Serbia (ufficialmente per violazione di copyright, ma come è noto Universal ha invece lasciato online moltissime altre apparizioni live della stessa artista…); quelle stesse impietose immagini vengono ora ripubblicate da più parti su questo ed altri siti di video. Persino da parte della Rai, nel proprio canale sul portale video di Google. Sempre in YouTube si può reperire l’ultima apparizione pubblica: guarda caso, ancora in un iTunes Festival. Quello dello scorso 20 luglio, che vide Amy ballare sul palco – ma non cantare – durante l’esibizione di Dionne Bromfield. Appena due giorni prima della tragica fine.

[Pubblicato su Mytech]

Musica online: il rilancio di Beatport

Un breve periodo di chiusura e poi il rilancio: una nuova fase per Beatport, il negozio di musica online preferito dai dj

Consente di scaricare brani in formato mp3, mp4 e wav; è specializzato solo in elettronica e dance; è attivo dal gennaio 2004, e da poco tempo online con una nuova versione: stiamo parlando di Beatport.

Non è il primo restyling: aggiornamenti importanti si erano già avuti in altre occasioni, nel 2005 e 2007. Il sito che ha sede a Denver, Colorado (ma con uffici anche a Berlino e New York) è di fatto la versione moderna del vecchio negozietto di vinili dove il dj andava a rintanarsi il sabato pomeriggio, spulciando tra le novità più insolite, tra i promo e i “white label” semianonimi, in cerca del potenziale successo da dancefloor da “sparare” in pista alla sera o da mandare in radio. O, per i più fortunati, si metteva in conto e pagava l’emittente.

Oggi quel mondo è quasi scomparso: manca forse il tipo di contatto umano del negozietto di cui sopra; ci sono però presenze in social network come Facebook e Twitter. E il nuovo Beatport permette di preascoltare ampi stralci dei brani, visualizzare la forma d’onda, trovare indicati i BPM per ogni pezzo (ecco un esempio).

Con una crescita del 31% nell’ultimo anno, Beatport ha tutte le carte in regola per restare al suo posto e migliorare ancora: lontano dai piani alti della musica online, dove risiede Apple iTunes, ma ben saldo nella propria – e tutt’altro che irrilevante – nicchia di mercato.

 

[Pubblicato da Mytech]

L’ascesa di Spotify, le mosse di Music Beta by Google

Spotify è finalmente attivo in USA: e punta a 50 milioni di utenti. Intanto Google non sta a guardare…

Le grandi manovre che potrebbero cambiare la faccia del “circo” della musica online continuano: Spotify, come ampiamente annunciato, è finalmente sbarcato negli Stati Uniti.

E i primi dati sono incoraggianti. Il noto servizio di streaming, che ha già all’attivo una discreta popolarità e 10 milioni di utenti in alcuni paesi europei, punta ad aggiungere la ragguardevole cifra di ben 50 milioni (!) di utenti statunitensi entro fine anno; ciò può sembrare un obiettivo fin troppo ambizioso. Ma d’altro canto, il fondatore Daniel Ek sembra fiducioso e anzi dichiara a CNN che le limitazioni (la necessità di ricevere un “invito” per entrare nel servizio) sono state implementate proprio per avere una crescita graduale e non “crollare” sotto il peso di troppi nuovi iscritti tutti insieme.

Un altro obiettivo decisamente ambizioso? Rendere disponibile tutta la musica registrata esistente al mondo: non solo i cataloghi delle major d’occidente quindi, ma musica asiatica, africana, sudamericana e via dicendo.

Con 15 milioni di brani in tasca, Spotify è sulla buona strada e – come abbiamo detto in altre occasioni – si candida ad essere il vero “juke-box celestiale” che la Rete attende da sin troppo tempo.

Ma uno dei principali (potenziali) concorrenti non sta a guardare: si tratta di quel Music Beta by Google nato in fretta e furia e quasi in contemporanea a iniziative simili di Apple ed Amazon. Se tutti questi servizi hanno in comune l’idea della “cloud“, della nuvola dove immagazzinare qualcosa e a cui accedere, piuttosto che avere i file sempre presenti sui propri apparecchi, va detto che la differenza principale è che le “nuvole” di Amazon e Google erano state lanciate senza permesso da parte dei detentori di diritti e quindi senza contenuto, proprio come “scatole vuote” da riempire coi propri file. Diversamente da quanto poi annunciato da Apple, e ovviamente anche dal vasto repertorio in streaming licenziato da Spotify. Google, però, sta da qualche tempo “riempiendo la scatola”. Non solo: di fatto è aperto anche a utenti nostrani. Anche se tuttora chi si reca su music.google.com trova un messaggio che riferisce che il servizio è limitato agli USA, chi aveva mesi fa richiesto un invito si è trovato ad avere accesso al servizio musicale di Mountain View.

Sorpresa: al primo accesso si possono selezionare i generi musicali preferiti (potete anche selezionarli tutti…) e ricevere brani ascoltabili gratis. Generalmente non si tratta di album completi ma di uno o più brani estratti da un disco. Il repertorio è però limitato: tutti questi brani arrivano da etichette indipendenti riconducibili all’aggregatore IODA, o da un’unica major: Sony. Come dire: qualcosa è stato fatto ma il grosso manca ancora all’appello.

L’upload dei propri brani già in proprio possesso lascia a desiderare: chi scrive è riuscito a caricare diverse centinaia di mp3 nel proprio account; allo stesso tempo ha ricevuto molti messaggi d’errore per file che Google ha incluso nella ricerca ma che non è riuscito a caricare (in alcuni casi, file protetti da DRM, ma anche semplici mp3 non protetti).

Insomma, di lavoro da fare ce n’é ancora molto, anche se qualcosa si è mosso a Mountain View; in attesa di vedere all’opera l’iCloud di Apple, solo Amazon resta al palo.

[Pubblicato da Mytech]

Spotify: finalmente in USA

Con almeno un anno di ritardo, ecco l’attesissima notizia: Spotify arriva in USA. Resa dei conti nel circo della musica online?

Di sicuro, la seconda metà del 2011 non sarà noiosa per i frequentatori del “circo” della musica digitale.

Mentre Apple, Google e Amazon lanciano le proprie “nuvole“, Spotify – re della musica in streaming – finalmente sbarca in USA.

Questo significa diverse cose: un potenziale canale di danaro fresco per etichette e artisti; un “jukebox celestiale” per gli utenti (Spotify è il servizio che più sembra avvicinarsi a questa idea; e la rilancia citando nella propria pagina dedicata al lancio in USA una definizione pubblicata nel 2009 dalla rivista Time) a costi contenuti o persino gratis.

Infine, un temibile concorrente che – oltre a poter essere l’unica vera minaccia per lo strapotere di Apple – siamo certi non mancherà di dare il colpo di grazia a qualche sito o servizio che stancamente si trascina da anni (Napster, Rhapsody, Medianet e altri ancora).

Al 12 giugno, a Spotify mancava solo il repertorio Warner per avere in tasca i cataloghi delle quattro major, a disposizione del pubblico americano. Con 10 milioni di utenti in Europa (dati di fine 2010) e 1 milione di abbonati paganti nel vecchio continente a marzo 2011, Spotify finalmente compie il grande salto verso il mercato più importante per la musica.

La data definitiva non è stata annunciata, ma stavolta sembra davvero la volta buona: il jukebox universale è in arrivo; la resa dei conti nel mondo dell’mp3, pure…

(Si ringrazia Nicola D’Agostino per la collaborazione)

[Pubblicato su Mytech]

Universal: class action degli artisti per il digitale

Dopo il caso Eminem, si allunga la lista degli artisti che pretendono un trattamento diverso per le vendite di mp3: guai in vista per le major?

Nuovi guai per Universal: un gruppo di artisti prepara una class action per le royalty digitali.

Tutto comincia con Eminem, o meglio con la sua ex casa di produzione FBT e una causa che la contrapponeva ad Universal Music Group per le royalty relative alla distribuzione di musica online.

Per Universal, un mp3 è una “vendita” e quindi le royalty sono calcolate come si calcolano le vendite dei dischi. Con percentuali a favore dell’artista non proprio entusiasmanti (d’altra parte il costo del supporto fisico e i costi collaterali come grafica, studio di registrazione, promozione ecc. sono tutt’altro che trascurabili).

Nell’mp3, però, i costi si riducono drasticamente. Spesso, si tratta solo di riciclare materiale di catalogo nel nuovo formato digitale. E i contratti tra label e siti web fanno riferimento a una licenza: l’etichetta concede in licenza un master, che poi viene venduto da siti e servizi online oppure incluso in formule di abbonamento, e via dicendo.

Può sembrare solo una questione di forma; così non è: nel licensing – pensiamo a utilizzi multimediali come film, dvd, videogiochi – il compenso di un artista raggiunge anche 50% dei proventi.

Il caso Eminem, o meglio FBT/UMG, si è chiuso con una sconfitta per la major: il giudice ha sostenuto la posizione della parte attrice. E’ una licenza, bisogna pagare di più.

A questo punto molti osservatori del mercato hanno pronosticato una valanga di azioni analoghe da parte di altri artisti e produttori. La prima è stata quella degli eredi di Rick James, superstar del funk. Era inizio aprile 2011.

Qualche giorno fa si sono aggiunti altri pezzi grossi: come riferisce Hypebot, Rob Zombie, White Zombie, Whitesnake e Dave Mason sono i nomi coinvolti in una class action contro UMG, depositata alla Corte Distrettuale di San Francisco.

Universal per ora resta sulle sue posizioni: il contratto relativo ad Eminem era un caso particolare, non lo standard. Allo stesso tempo, molti altri legali studiano azioni simili per i propri clienti. Dunque le major del disco hanno da temere dal mondo degli mp3 legali più danni di quanti non ne abbia mai fatto il peer-to-peer non autorizzato? Una grana non da poco, in un momento molto delicato per il mercato.

Curiosità finale: in realtà dal caso Eminem, paradossalmente, chi non guadagnerà nulla è proprio l’artista stesso (!). Lo ha rivelato il 18 maggio MTV RapFix: in pratica, l’artista non si è unito in prima persona all’azione legale, che è stata portata avanti dai produttori di FBT. Ciò forse per non irritare la major, che è anche proprietaria di Interscope, la struttura con cui Eminem lavora tuttora.

Fatto sta che in mancanza di un accordo ad hoc (o di una ulteriore azione legale) nulla sarà dovuto da FBT a Marshall Bruce Mathers III

[Pubblicato da Mytech]

John Titor e il brevetto della macchina del tempo

Se John Titor – fantomatico viaggiatore del tempo – è un personaggio di fantasia, come mai la sua macchina del tempo è dettagliatamente descritta in un documento dell’Ufficio Brevetti statunitense di qualche anno fa?

Il titolo del presente articolo suona volutamente come quello di un film di Harry Potter o di Indiana Jones. E John Titor è un personaggio su cui in Rete si può leggere moltissimo, ma che di certo è più appropriato in un programma tv come il Voyager di Roberto Giacobbo che in un contesto come Mytech.

Dunque perché riparlarne? Perché le grandi bufale, quelle veramente ben riuscite, vivono di vita propria: e continuano a rinnovarsi negli anni.

Se dietro Titor sembra esserci uno scherzo lanciato a mezzo Internet da un gruppo di persone (tra cui almeno un italiano), e alcuni aspetti non sono mai stati chiariti (come mai tutta la documentazione è coperta da Copyright? Si tratta per caso di un modo particolarmente elaborato per promuovere un libro/personaggio/film o roba del genere?) è interessante vedere come la leggenda sia viva più che mai, dopo oltre un decennio.

L’ultimo “episodio” ha del surreale.

Qualcuno ha scoperto che esiste un “brevetto” per la macchina del tempo presso l’Ufficio Brevetti statunitense. Per l’esattezza una proposta, non ancora un brevetto vero e proprio.

Il documento è stato depositato nel 2004 e viene reso pubblico nel 2006. Fin qui nulla di strano: invenzioni balzane e improbabili vengono brevettate ogni giorno; normalmente, non porteranno mai a nulla di concreto o al massimo diventeranno il prossimo prodotto nel catalogo di gadget da cui avete pescato il regalo di Natale “utile” o “spiritoso” per amici e parenti.

Ma il documento US2006/0073976 A1 pubblicato il 6 aprile 2006 ha qualcosa di sinistro: sotto il titolo “Method of Gravity Distortion and Time Displacement” si trovano le teorie esposte da John Titor e soprattutto i grafici relativi alla fantomatica macchina (di produzione General Electric!) che lo avrebbe portato indietro nel tempo dal 2036 fino al 2000!

Titor dunque diceva la verità? Come avrebbe potuto pubblicare nel 2000 pezzi di manuale relativo a un macchinario che sarebbe stato inventato solo nel 2004?

La fantasia di complottisti, appassionati di fantascienza o semplici rompiscatole della Rete ;) è ripartita nuovamente senza freni. Questo più o meno a partire da un post sul forum cospirazionista Godlike Productions, il 6 marzo scorso e fino a metà aprile di quest’anno.

Finché non si è fatto vivo, il 29 marzo, l’autore del proposto brevetto: il signor Marlin B. Pohlman di Tulsa, Oklahoma.

Pohlman ha rapidamente svelato l’arcano; nessun viaggio nel tempo: intorno al 2004, a causa di una grave malattia, si trovò a prendere un medicinale sperimentale che stimolò notevolmente la sua attività cerebrale. La combinazione tra il comprensibile nervosisimo per la sua situazione (stava rischiando la vita) e l’intensa attività del suo cervello, lo portò a trovarsi questo curioso passatempo: prendere i disegni – peraltro non proprio chiarissimi – dal manuale di istruzioni di Titor e dagli un senso, magari collegando teorie scientifiche reali e brevetti preesistenti:

 

Ho fatto reverse engineering. (…) All’epoca non avevo altro che Internet, una lavagna bianca e un sacco di Modafinil per via della sperimentazione. Ho citato in bibliografia tutti i brevetti a cui ho fatto riferimento.

Oh… e ho ricreato i diagrammi usando Visio e Mathlab (il diagramma del campo sferico). I grafici presenti in Internet erano inutilizzabili.

 

Pohlman, comunque, non è il solito autodidatta improvvisato e magari un po’ matto: è un professionista nel campo del software ed autore di un libro su Oracle Identity Management. E proprio in questo libro a un certo punto, nel fare un esempio,  utilizza il nome di una persona a caso: John Titor.

Al punto che qualcuno arriva a ipotizzare che Pohlman e Titor siano la stessa persona.

Continua però Pohlman:

 

Lieto che qualcuno abbia trovato “l’easter egg” su Titor nel mio libro.

Pensate alla domanda di Brevetto come a un razzo segnaletico lanciato da qualcuno che pensava che non gli fosse rimasto molto da vivere. Sei cicli di chemio e un trapianto di staminali entrambi andati male. Solo la sperimentazione e un viaggio in Thailandia mi hanno salvato la vita. Il mio pensiero era che avevo fatto tutto ciò che potevo e l’unico modo di convincere una persona del futuro che la mia vita valeva qualcosa era di pubblicare qualcosa di unico.

 

In un certo senso, quest’ultima parte gli è riuscita di sicuro; la macchina del tempo però resta confinata nel fantastico, per ora: nei fumetti col Dottor Destino che sfida i Fantastici Quattro, nel romanzo di H.G.Wells e nella classica pellicola di George Pal o nei film con Michael J. Fox. E ovviamente, nelle leggende su John Titor, cyber-viaggiatore dell’anno 2036.

[Pubblicato da Mytech]

CD Baby: Tunecore aumenta i prezzi? Venite da noi

Un distributore di musica aumenta i prezzi per pubblicare su iTunes & co.: e la concorrenza ci va a nozze…

Se questo fosse un film, lo potremmo intitolare: “2011: Fuga da Tunecore“.

Chi scrive qualche settimana fa si è visto recapitare da un’amica cantante un messaggio standard del distributore musicale Tunecore.

Era il momento di versare la cifra annuale per il rinnovo dei servizi (Tunecore non lavora con percentuali ma con cifre fisse pagate all’inizio e poi di anno in anno).

La distribuzione di un singolo era ancora ferma a 9,99$, come nel 2008 quando il brano in questione era stato pubblicato.

Invece, per un album uscito nel 2009, i cui costi distributivi ammontavano originariamente a 19,98$ e il cui rinnovo lo scorso anno era stato effettuato allo stesso prezzo, c’era una richiesta particolare: 49,99 dollari.

L’importo non è casuale: Tunecore di fatto avrebbe ampliato la lista di servizi e modificato in parte la propria offerta, annunciando ufficialmente il 12 maggio scorso le varie novità.

Ma l’aumento del 150% delle tariffe ha scioccato non pochi musicisti indipendenti, nelle scorse settimane. Diversi artisti hanno cominciato a lavorare col sito quando il costo della distribuzione era di soli 7,98 dollari. Molti – non utilizzando più dei pochi servizi di base – meditano di lasciare il servizio e rivolgersi alla concorrenza.

Che non sta a guardare: ReverbNation ed altri già si starebbero muovendo, tentando i clienti di Tunecore con offerte per trasferire il proprio repertorio.

Chi però ha battuto tutti sinora è CD Baby; il popolare distributore indipendente e fornitore n.1 di Apple iTunes ne ha fatta una delle sue: ha lanciato un sito ad hoc all’indirizzo cdbabylovesyoumore.com.

Il sito che ha cambiato il modo di distribuire musica e che ha aiutato oltre 250.000 artisti a restare in sella per oltre un decennio, invita apertamente alla fuga da Tunecore ma anche da ReverbNation e altri concorrenti: tariffe scontate del 50% per tutti e nessun costo annuale (CD Baby si regge sulle percentuali, in caso di vendite).

L’offerta è valida solo per i titoli già pubblicati in Tunecore e altri distributori della concorrenza; contattando cdbaby {at} cdbaby(.)com, scrivendo “Switch to CD Baby” nell’oggetto e i propri dati nel messaggio, si potrà accedere all’offerta, aggressiva e decisamente furba.

CD Baby vi ama di più”, dice lo slogan. Come dargli torto? ;)

(Si ringrazia Nicola D’Agostino per la collaborazione)

[Pubblicato su Mytech, http://mytech.it/web/2011/05/19/cd-baby-tunecore/]

Musica online: pirateria, vendette & peer-to-peer

“Vendicarsi” a mezzo Torrent regalando copie pirata di tutta la discografia di un artista? Ai nostri giorni succede anche questo…

Continua…

Ovi: si torna a Nokia

Clamoroso dietrofront: dopo neanche un anno, Nokia abbandona il marchio sotto il quale aveva raggruppato diversi servizi, dalla musica alle mappe

Continua…

Google Music: anche noi nella “cloud” (dopo Amazon)

Servizi “cloud” per la musica di Google e Amazon: pericolo per iTunes, o “nuvole” di fumo? Con una riflessione sul futuro prossimo della musica online

"Nuvole" di musica anche per Google, che lancia un servizio per certi versi simile a quello recentemente avviato da Amazon. Parte stasera (solo per gli USA: gli altri se vogliono, tramite un qualche servizio proxy possono ammirare la home page e rosicare…) Google Music. Anzi, per adesso, accanto alla parola “music” c’è un grosso “beta”, perché il tutto è in fase sperimentale. “Music Beta by Google”. L’indirizzo è music.google.com. Continua…

Da PayBox.me a VirtaPay: innovazione o truffa?

Un sistema di pagamento innovativo, una moneta “virtuale” e un potenziale concorrente di Paypal, o una clamorosa truffa? Note su PayBox.me (ora VirtaPay)

Non ci sono vie di mezzo: VirtaPay sarà o un pericoloso concorrente di Paypal, o una truffa che finirà con l’incriminazione dei suoi proprietari.

 

paybox_logo

Nato come PayBox.me, questo sito ha fatto parlare moltissimo di sé nel corso del 2010 e dopo un recente cambio di nome e un parziale restyling, teoricamente ha anche fatto dei progressi verso la costruzione di un proprio sistema di moneta elettronica e di pagamenti online.

C’è però un problema di fondo: PayBox.me/VirtaPay è troppo bello per essere vero. Inizialmente, un bonus di $50 veniva offerto ai nuovi iscritti, senza dover fare nulla (!). Fin qui non è una novità così clamorosa: chi scrive ricorda i giorni – quasi la preistoria della Rete –  in cui Paypal era in fase di lancio e a ogni nuovo account veniva accreditato un bonus di 5 dollari.

VirtaPay logo

Anche se il bonus iniziale si è poi ridotto a 25 dollari, ci sono altri modi per accrescere (quasi senza far niente) questo “gruzzolo” virtuale nel proprio account. Per esempio semplicemente facendo login e controllando il blog o le altre eventuali novità del sito. VirtaPay promette 20 dollari al giorno (paradossalmente, qualcuno ha notato che se non si fa nulla e ci si collega al proprio account ogni due giorni e basta, automaticamente il totale sale di 40 dollari; se invece si partecipa a qualche attività i bonus accreditati sono inferiori).

Ma stiamo correndo: perché mai dunque questo servizio regalerebbe soldi? In teoria per due motivi: per attirare nuovi clienti e per avere un gran numero di beta tester, i cosiddetti “early bird users” che partecipando a sondaggi e altre attività, aiuterebbero in concreto lo sviluppo del sito. Una volta raggiunto un paio di milioni di utenti, si passerebbe all’apertura vera e propria.

Sempre teoricamente, attualmente il sito è in fase di scrittura del codice per le transazioni di beni digitali, quindi per la vendita di cose come mp3 ed ebook. Finora è stato invece solamente possibile inviare denaro (virtuale) da un utente all’altro, mentre non è possibile né acquistare beni fisici, né effettuare transazioni dalla moneta virtuale a quella reale del proprio conto in banca o di una carta di credito, come invece avviene in Paypal sia per prelievi che per depositi e pagamenti.

VirtaPay promette infine bonus di 10 dollari per ogni registrazione effettuata tramite appositi link di affiliazione, che riporteranno il nome dell’utente “referrer” (esempio: http://www.virtapay.com/r/djbatman). E in teoria l’attivazione di una carta di credito che permetterà di spendere i propri danari sin qui accumulati e/o di usare VirtaPay un po’ come usereste Paypal e carta di credito.

Fin qui tutto ok. Ora le dolenti note:

1) Quando il servizio si chiamava ancora Paybox, il sito era infarcito di link Google ed altri banner. Una delle accuse mosse al misterioso servizio era di voler costruire una immensa rete di utenti guadagnando nel frattempo con link e banner, per poi dichiarare fallimento alla prima occasione (e non pagare alcuno dei ricchi bonus promessi).

2) Onestamente, alcune delle iniziative sinora presentate nella fase di testing sono più che dubbie: il sondaggio per l’e-commerce, nebuloso e privo di sostanza (si trattava solo di cliccare su una mappa e indicare gli stati dove avreste voluto fare shopping); un altro sondaggio, anzi due, per la scelta del design di una carta di credito, pieno di design brutti e banali, spesso con immagini di cattiva qualità prelevate da chissà dove; oppure di qualità buona ma comunemente reperibili in librerie royalty-free. Perché mai perdere tempo e denaro in un inutile sondaggio del genere, se un vostro dipendente può fare lo stesso lavoro praticamente gratis e in pochi minuti usando una immagine generica presa da Wikimedia Commons o da un cd royalty-free?

3) Delle presunte carte di pagamento non si sa più nulla.

VirtaPay - History

4) (e questo è forse il fatto più grave) molti hanno fatto notare come, a leggere bene le condizioni del servizio, la “virtual currency” di VirtaPay è davvero “virtuale”: i dollari VirtaPay non sono necessariamente equivalenti ai dollari americani e il tasso di cambio è tutto da stabilire. In altre parole, alcuni utenti si ritrovano bonus di 10.000 dollari e potrebbero scoprire (se mai il servizio arriverà alla fantomatica fase inaugurale) che in realtà hanno in tasca solo pochi spiccioli “veri”. Gli 800 e passa dollari accumulati dal sottoscritto nell’arco di alcuni mesi facendo qualche login occasionale o votando per i bruttissimi design delle carte sono probabilmente pochi centesimi o – nel migliore dei casi – pochi dollari. Ammesso che mai diverrano utilizzabili in concreto.

VirtaPay - Balance

5) In Rete si parla molto di questo servizio ed alcuni ritengono che dietro ci siano personaggi già dediti ad attività di truffe telematiche con altri siti, in passato. Lo schema ricorda per esempio un fantomatico servizio di qualche anno fa (GreenZap) operato da tale Damon Westmoreland, personaggio legato alla truffa piramidale ThePayline.com.

6) Non ci sono in effetti informazioni sulla società che lo gestisce. Peggio: se si controlla il domain virtapay.com tramite WHOIS, si scopre che è stato usato (ufficialmente per motivi di “privacy”) il proxy www.whoisguard.com per la registrazione. In altre parole, neanche da lì si riesce a sapere chi ne sia il proprietario. In realtà, ci sono tracce lasciate dal vecchio PayBox.me: secondo http://dnsw.info/paybox.me portano a una società francese, per l’esattezza a uno studio legale specializzato in proprietà intellettuale (?) con sede a Guyancourt, cittadina della regione dell’Île-de-France.

7) Il nome originario (PayBox) sembrava scelto apposta per creare confusione: sin dal 1999 esiste in effetti in Europa un servizio per pagamenti via cellulare con questo nome e il sito www.paybox.at.

In conclusione: continueremo a monitorare VirtaPay e le notizie ad esso relative, anche se l’utente medio della Rete è avvisato: molto probabilmente esplorare il sito o postare link in caccia dei ricchi bonus annunciati non è tanto diverso da giocare con le banconote di carta del Monopoli… ;)

Pubblicato su: http://mytech.it/web/2011/04/20/da-payboxme-virtapay-innovazione-o-truffa/

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Continua…